di Silvia La Franceschina
“C’era una volta o forse non c’era”, la bella favola si apre rompendo subito gli schemi, sin dalle prime battute disarma lo spettatore, che resta al confine tra certezze note e la disattesa di un’aspettativa tradita.
Senza tempo è l’ultima fatica teatrale a cura della compagnia Binario Zero, andata in scena il 30 e il 31 maggio sul palco del Teatro Garibaldi, per la regia di Giancarlo Attolico.
È una fiaba – ma mica poi tanto – quella di Nunì, la piccola protagonista destinata a spezzare il triste incantesimo che condanna tutti i personaggi ad un infelice destino, uguale e diverso a tante storie, sopite nella soffitta dei nostri ricordi di bambini.
Le favole inventano una strada, in mezzo al silenzio; come nei sogni spalancano gli occhi su realtà terribili, esageratamente belle, terribilmente forti, disumane e nemiche. Ma non perdono mai il contatto con la vita, quella vera. Che sguscia dalle maglie della grande metafora teatrale, per scivolare vischiosamente tra il pubblico, e renderlo prigioniero.
Sono personaggi senza tempo, maschere riconoscibili di tradizioni secolari, quelle che si muovono in una trama nuova, ragnatele di rapporti intricati in cerca di una forma. Eroi (Pinocchio, il Grillo parlante, Cenerentola, Biancaneve, la Bella addormentata nel bosco, Cappuccetto Rosso, la Fata Turchina, il Brucaliffo…) erranti in questo nostro tempo di sogni infranti.
Nunì, dolcissimo mix di leggendarie principesse, porta sulle esili spalle il fardello della risoluzione finale di un intreccio che – stavolta non tradendo le attese – si rivelerà catartico per tutti, spettatori inclusi.
Dovrà fare una scelta Nunì, decidere di farsi ingoiare dalle tenebre dell’individualismo seducente e imperante o accendere un faro di speranza. Perché: “Non c’è notte di luna in cui negli animi malvagi le idee perverse non s’aggroviglino come nidiate di serpenti, e in cui negli animi caritatevoli non sboccino gigli di rinuncia e dedizione”.
Le fiabe lo sanno: il protagonista non si guadagna da solo il lieto fine. Si lotta insieme; tutti abbiamo una ferita segreta per riscattare la quale combattiamo.
Nunì si ritrova in un non-luogo e in un non-tempo perché il suo cammino, la sua storia, rappresentano l’erto sentiero di ognuno di noi. La vita non è affatto breve e così amara, anzi può rivelarsi molto meglio di quanto si possa immaginare, se il tempo viene gestito bene.
Il monologo finale – tratto dal film “The big Kahuna”- è un monito universale per l’umanità, un invito da parte del Tempo stesso a farsi vivere nell’unico modo indolore possibile: godendo pienamente l’oggi.
“Fa una cosa ogni giorno che sei spaventato:Canta!”